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Corte di Giustizia Europea: per la competenza in materia di responsabilità genitoriale, vale il superiore interesse del minore

SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)

27 ottobre 2016

«Rinvio pregiudiziale – Cooperazione giudiziaria in materia civile – Competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale – Regolamento (CE) n. 2201/2003 – Articolo 15 – Trasferimento del caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro – Ambito di applicazione – Condizioni per l’applicazione – Autorità giurisdizionale più adatta – Interesse superiore del minore»

Nella causa C‑428/15, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Supreme Court (Corte Suprema, Irlanda), con decisione del 31 luglio 2015, pervenuta in cancelleria il 4 agosto 2015, nel procedimento

Child and Family Agency

contro

J.D.,

con l’intervento di:

R.P.D.,

LA CORTE (Terza Sezione),

composta da L. Bay Larsen, presidente di sezione, M. Vilaras, J. Malenovský (relatore), M. Safjan e D. Šváby, giudici,

avvocato generale: M. Wathelet

cancelliere: L. Hewlett, amministratore principale

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 12 maggio 2016,

considerate le osservazioni presentate:

–        per la Child and Family Agency, da L. Jonker, solicitor, T. O’Leary, SC, e D. Leahy, barrister;

–        per J.D., da I. Robertson, solicitor, M. de Blacam, SC, e G. Lee, BL;

–        per il minore R.P.D., da G. Irwin, solicitor, G. Durcan, SC, S. Fennell, BL, e N. McDonnell, BL;

–        per l’Irlanda, da E. Creedon e L. Williams nonché da A. Joyce, in qualità di agenti, assistiti da A. Carroll, BL;

–        per il governo ceco, da M. Smolek e J. Vláčíl, in qualità di agenti;

–        per il governo slovacco, da B. Ricziová, in qualità di agente;

–        per la Commissione europea, da M. Wilderspin, in qualità di agente,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 16 giugno 2016,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 15 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000 (GU 2003, L 338, pag. 1, e rettifica in GU 2013, L 82, pag. 63).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Child and Family Agency (Agenzia per l’infanzia e la famiglia, Irlanda; in prosieguo: l’«Agenzia») e la sig.ra J.D. in merito alla sorte del secondo figlio di quest’ultima, il minore in tenera età R.

Contesto normativo

3        I considerando 5, 12, 13 e 33 del regolamento n. 2201/2003 enunciano:

«(5)      Per garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale.

(…)

(12)      È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale.

(13)      Nell’interesse del minore, il presente regolamento consente al giudice competente, a titolo eccezionale e in determinate condizioni, di trasferire il caso al giudice di un altro Stato membro se quest’ultimo è più indicato a conoscere del caso. Tuttavia, in questo caso, il giudice adito in seconda istanza non dovrebbe essere autorizzato a trasferire il caso a un terzo giudice.

(…)

(33)      Il presente regolamento riconosce i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, mira a garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali del bambino quali riconosciuti dall’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

4        L’articolo 1 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Campo di applicazione», prescrive quanto segue:

«1.      Il presente regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:

(…)

b)      all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale.

2.      Le materie di cui al paragrafo 1, lettera b), riguardano in particolare:

a)      il diritto di affidamento e il diritto di visita;

(…)

d)      la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto;

(…)».

5        L’articolo 2, punto 7, di tale regolamento stabilisce che, ai fini dello stesso, deve intendersi per:

«“responsabilità genitoriale”: i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita».

6        Il capo II di detto regolamento, intitolato «Competenza», comprende fra l’altro una sezione 2, intitolata «Responsabilità genitoriale», che prevede, agli articoli da 8 a 15, una serie di regole riguardanti la competenza delle autorità giurisdizionali degli Stati membri in materia.

7        L’articolo 8 di tale regolamento, intitolato «Competenza generale», al paragrafo 1 dispone, in particolare, quanto segue:

«Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono adit[e]».

8        A termini dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso»:

«1.      In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare sia più adatt[a] a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:

a)      interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4 oppure

b)      chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5.

2.      Il paragrafo 1 è applicabile:

a)      su richiesta di una parte o

b)      su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o

c)      su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il minore abbia un legame particolare, conformemente al paragrafo 3.

Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti.

3.      Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro

a)      è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o

b)      è la precedente residenza abituale del minore; o

c)      è il paese di cui il minore è cittadino; o

d)      è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o

e)      la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore situati sul territorio di questo Stato membro.

4.      L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite conformemente al paragrafo 1.

Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14.

5.      Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adit[a] ai sensi degli articoli da 8 a 14.

6.      Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53».

Procedimento principale e questioni pregiudiziali

9        La sig.ra D. è cittadina del Regno Unito.

10      Il suo primo figlio è stato collocato in un istituto nel Regno Unito nel corso del 2010, in seguito a constatazioni secondo cui la sig.ra D., da un lato, soffriva di un disturbo di personalità qualificato come «comportamento asociale» e, dall’altro, aveva dato prova di violenza fisica verso tale figlio.

11      Mentre risiedeva sempre in tale Stato membro, la sig.ra D. si è sottoposta, il 27 agosto 2014, a un esame prenatale organizzato dalle autorità di tutela dell’infanzia del suo luogo di residenza in previsione della nascita del suo secondo figlio, R., e ciò in ragione dei suoi precedenti medici e familiari. Da questo esame è emerso fra l’altro che la sig.ra D. aveva dato prova di affetto verso il suo primo figlio, che attendeva la nascita di R. con un atteggiamento positivo e che aveva preso provvedimenti in previsione di tale nascita e che, in particolare, aveva manifestato la volontà di collaborare con gli assistenti sociali al riguardo. Le autorità competenti hanno tuttavia ritenuto che, al momento della nascita, R. avrebbe dovuto essere affidato a una famiglia affidataria, nell’attesa dell’avvio di una procedura di adozione da parte di terzi.

12      La sig.ra D. ha quindi risolto il proprio contratto di locazione e ha venduto i propri beni nel Regno Unito, per stabilirsi in Irlanda il 29 settembre 2014. R. è nato in tale secondo Stato membro il 25 ottobre 2014. Entrambi vi risiedono da allora.

13      Poco dopo la nascita di R., l’Agenzia ha chiesto alla District Court (Corte distrettuale, Irlanda) competente di ordinare che il minore fosse oggetto di un provvedimento di affido. Tale domanda è stata tuttavia respinta con la motivazione che le prove de relato provenienti dal Regno Unito sulle quali l’Agenzia si basava erano irricevibili.

14      La Circuit Court (Corte circondariale, Irlanda) competente, adita con un appello presentato dall’Agenzia, ha disposto l’affidamento provvisorio di R. presso una famiglia affidataria. Tale misura è stata regolarmente rinnovata da allora. La sig.ra D. ha tuttavia ottenuto il beneficio del diritto di visita regolare a suo figlio, di cui ella ha usufruito.

15      L’Agenzia ha peraltro chiesto alla High Court (Alta Corte, Irlanda) che il giudizio nel merito fosse trasferito alla High Court of Justice (England & Wales) [Alta Corte di Giustizia (Inghilterra e Galles), Regno Unito]
16 Con una sentenza del 26 marzo 2015, la High Court (Alta Corte) ha autorizzato l’Agenzia a chiedere alla suddetta autorità giurisdizionale di esercitare la sua competenza riguardo al caso di cui trattasi.

17 La sig.ra D. ha chiesto di essere autorizzata ad appellarsi avverso tale sentenza direttamente dinanzi alla Supreme Court (Corte Suprema, Irlanda), che ha accolto la sua richiesta, dopo aver sentito le parti.

18 Nella sua decisione di rinvio, la Supreme Court (Corte Suprema) si chiede, innanzitutto, se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 sia applicabile a un caso avente ad oggetto una procedura di affidamento avviata sulla base del diritto pubblico, come quello con cui è adito, malgrado il fatto che, attualmente, nessuna procedura sia pendente nel Regno Unito e che una dichiarazione di competenza delle autorità giurisdizionali di tale Stato membro necessiti quindi, a valle, che le autorità di tutela dell’infanzia di detto Stato membro accettino di prendere in carico il caso di R., avviando una simile procedura sulla base del loro diritto interno.

19 Inoltre, il giudice del rinvio si interroga su come interpretare la nozione di «interesse superiore del minore» enunciata all’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003. Secondo detto organo, tale articolo non esige che il giudice normalmente competente a conoscere di un determinato caso proceda, qualora preveda di trasferirlo a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro che reputi più indicata a conoscerne, a un esame completo dell’interesse superiore del minore. Lo stesso ritiene che il giudice di norma competente debba piuttosto eseguire una valutazione sommaria di tale questione, alla luce del principio secondo cui è nell’interesse superiore del minore che sia l’autorità giurisdizionale più indicata a valutare la situazione a procedervi, con l’obbligo per l’organo giurisdizionale dell’altro Stato membro di effettuare un’analisi più approfondita.

20 Infine, il giudice del rinvio si interroga sugli elementi di cui tenere conto nell’ambito di una tale valutazione sommaria. A tal riguardo, egli sottolinea che del tutto legittimamente la sig.ra D. ha lasciato il Regno Unito per stabilirsi in Irlanda prima della nascita di R., pur chiedendosi se non sia comunque possibile tenere conto del fatto che il suo trasferimento è stato motivato dal timore che il figlio le fosse sottratto dai servizi di tutela dell’infanzia del primo di tali Stati membri.

21 In tale contesto, la Supreme Court (Corte Suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si applichi alle domande di diritto pubblico in materia di cura dei minori presentate da un’autorità locale in uno Stato membro, qualora, se il giudice di un altro Stato membro si dichiara competente, si renda necessario l’avvio di un procedimento distinto su iniziativa di un organo differente ai sensi di un ordinamento nazionale diverso, ed eventualmente, se non probabilmente, vertente su circostanze di fatto diverse.

2) In caso affermativo, in che misura, eventualmente, un organo giurisdizionale dovrebbe tenere conto del verosimile impatto di una domanda ai sensi dell’articolo 15, se accolta, sulla libera circolazione dei soggetti interessati.

3) Qualora l’“interesse superiore del minore”, di cui all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, si riferisca unicamente alla decisione relativa al foro competente, quali fattori relativi a tale nozione un organo giurisdizionale possa prendere in considerazione, che non siano già stati esaminati al fine di stabilire se un altro giudice sia “più adatto”.

4) Se un giudice, ai sensi dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, possa prendere in considerazione il diritto sostanziale, le norme procedurali o la prassi giurisprudenziale dello Stato membro di cui trattasi.

5) In che misura un giudice nazionale, ai fini dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, dovrebbe tenere conto delle circostanze specifiche della fattispecie, ivi compresa l’intenzione della madre di sottrarsi ai servizi sociali del suo Stato di residenza, e quindi di dare alla luce il figlio in un altro paese con un sistema di servizi sociali che considera a lei più favorevoli.

6) Quali siano precisamente gli elementi che un organo giurisdizionale nazionale deve prendere in considerazione per stabilire quale giudice sia il più adatto a esaminare il caso».

Procedimento dinanzi alla Corte

22 Il giudice del rinvio ha chiesto che la causa beneficiasse del procedimento pregiudiziale d’urgenza previsto dall’articolo 23 bis dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e dall’articolo 107 del regolamento di procedura della Corte.

23 Il 14 agosto 2015, la Corte ha deciso, dopo aver sentito l’avvocato generale, di non accogliere tale domanda, dopo aver rilevato che le circostanze esposte a supporto della stessa non dimostravano l’urgenza richiesta per giustificare l’applicazione di detto procedimento.

24 È stato disposto, tuttavia, che detta causa fosse decisa in via prioritaria, in applicazione dell’articolo 53, paragrafo 3, del regolamento di procedura.

Sulle domande di riapertura della fase orale

25 In seguito alla presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale il 16 giugno 2016, l’Agenzia e l’Irlanda hanno chiesto, con atti depositati presso la cancelleria della Corte, rispettivamente, il 5 ed il 19 agosto 2016, che fosse disposta la riapertura della fase orale del procedimento, facendo valere la necessità di chiarire la presentazione del quadro procedurale della controversia oggetto del procedimento principale, come effettuata dal giudice del rinvio.

26 A tal riguardo, l’articolo 83 del regolamento di procedura prevede che la Corte possa, sentito l’avvocato generale, disporre in qualsiasi momento la riapertura della fase orale del procedimento, in particolare se non si ritiene sufficientemente edotta.

27 Nel caso di specie, la Corte, sentito l’avvocato generale, si ritiene tuttavia sufficientemente edotta, dato che gli elementi necessari ai fini della decisione sono presenti nel fascicolo e che gli interessati hanno potuto prendere posizione al riguardo sia per iscritto che oralmente. Non occorre, pertanto, disporre la riapertura della fase orale del procedimento.

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla prima questione

28 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro, come nel procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.

29 Innanzitutto, occorre rilevare, da un lato, che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 rientra nella sezione 2 del capo II di detto regolamento, il quale stabilisce un insieme di regole di competenza nelle cause in materia di responsabilità genitoriale, e, dall’altro, che tale articolo prevede una regola di competenza specifica e derogatoria alla regola di competenza generale che designa le autorità giurisdizionali del luogo di residenza abituale del minore come giudici competenti a conoscere del merito di tali casi, enunciata all’articolo 8 del medesimo regolamento.

30 Tenuto conto dell’impianto sistematico della sezione 2 del capo II del regolamento n. 2201/2003 e della posizione occupata dall’articolo 15, si deve considerare che l’ambito di applicazione materiale di tale articolo è lo stesso di quello di tutte le regole di competenza enunciate in detta sezione e, in particolare, dell’articolo 8 di detto regolamento (v., in tal senso, sentenza del 19 novembre 2015, P, C‑455/15 PPU, EU:C:2015:763, punto 44).

31 A tal riguardo, è vero che dalla formulazione dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, del regolamento n. 2201/2003 risulta che tali regole di competenza si applicano alle «materie civili» relative all’attribuzione, all’esercizio, alla delega ed alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale, come definita all’articolo 2, punto 7, del medesimo regolamento.

32 Tuttavia, la Corte ha già dichiarato, a più riprese, che le regole di competenza previste dal regolamento n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale devono essere interpretate, alla luce del considerando 5 di tale regolamento, nel senso che si applicano a cause in materia di responsabilità genitoriale aventi ad oggetto misure di protezione del minore, anche nel caso in cui queste ultime siano considerate, ai sensi dell’ordinamento interno di uno Stato membro, rientranti nel diritto pubblico (v., in tal senso, sentenze del 27 novembre 2007, C, C‑435/06, EU:C:2007:714, punti 34 e da 50 a 51; del 2 aprile 2009, A, C‑523/07, EU:C:2009:225, punti 24 e da 27 a 29, nonché del 26 aprile 2012, Health Service Executive, C‑92/12 PPU, EU:C:2012:255, punti 60 e 61).

33 Da quanto precede deriva che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si applica nel caso di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale.

34 Inoltre, riguardo alla questione se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 possa essere applicato nel caso in cui la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, occorre sottolineare che dal paragrafo 1 di detto articolo risulta che una dichiarazione di questo tipo è subordinata alla condizione che l’organo giurisdizionale di cui trattasi sia stato adito con una domanda presentata o dalle parti in causa o dal giudice competente di tale primo Stato membro.

35 Per contro, non risulta né da tale articolo né da alcun altro articolo del regolamento n. 2201/2003 che una siffatta domanda, presentata dalle parti in causa o dal giudice di uno Stato membro di norma competente, sia soggetta a una condizione procedurale che si aggiunga a quella indicata al punto precedente.

36 Ciò posto, dato che una norma di procedura nazionale secondo cui la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessita, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale Stato membro, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, può essere messa in atto solo in seguito alla decisione con cui il giudice di tale primo Stato membro di norma competente ha chiesto il trasferimento del caso a un organo giurisdizionale di un altro Stato membro in applicazione del paragrafo 1 dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 e alla decisione mediante cui quest’altro organo giurisdizionale si è dichiarato competente sulla base del paragrafo 5 del medesimo articolo, essa non può ritenersi ostativa all’adozione di tali decisioni.

37 Inoltre, l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 non osta a che l’avvio di un procedimento distinto da parte dell’autorità dell’altro Stato membro induca, eventualmente, l’organo giurisdizionale di tale altro Stato membro a tenere conto di circostanze di fatto diverse da quelle che avrebbero potuto essere considerate dal giudice inizialmente competente. Al contrario, una simile ipotesi attiene al meccanismo di trasferimento a un organo giurisdizionale più adatto istituito da tale articolo.

38 Per i suddetti motivi, alla prima questione occorre rispondere che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.

Sulle terza, sulla quarta e sulla sesta questione

39 Con la terza, la quarta e la sesta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza come interpretare e articolare le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» di cui all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.

40 L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 prevede che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito di un caso possono chiedere il trasferimento di tale caso o di una sua parte specifica a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare, ove ritengano che quest’ultima sia più adatta a trattarla e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore.

41 Poiché le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» ai sensi di tale disposizione non sono definite da alcun’altra disposizione del regolamento n. 2201/2003, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti da detto regolamento.

42 Si deve preliminarmente osservare che, a termini del considerando 12 del regolamento n. 2201/2003, le regole di competenza dettate da quest’ultimo in materia di responsabilità genitoriale sono ispirate all’interesse superiore del minore.

43 La necessità che il trasferimento di un caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro corrisponda all’interesse superiore del minore costituisce, come sostanzialmente rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 70 delle sue conclusioni, un’espressione del principio cardine su cui, da un lato, si è basato il legislatore nella concezione di tale regolamento e che, dall’altro, deve guidare la sua attuazione nelle cause in materia di responsabilità genitoriale ad esso assoggettate (v., in tal senso, sentenze dell’11 luglio 2008, Rinau, C‑195/08 PPU, EU:C:2008:406, punto 51; del 1° ottobre 2014, E., C‑436/13, EU:C:2014:2246, punto 45, e del 12 novembre 2014, L, C‑656/13, EU:C:2014:2364, punto 48).

44 A tal riguardo, si deve altresì rilevare che, nel contesto del regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento (v., in tal senso, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punti da 53 a 55, e del 5 ottobre 2010, McB., C‑400/10 PPU, EU:C:2010:582, punto 60).

45 Al fine di garantire che sia preso in considerazione l’interesse superiore del minore in sede di attuazione delle regole di competenza sancite dal regolamento n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale, il legislatore dell’Unione si è avvalso, come risulta dal considerando 12 di tale regolamento, del criterio di vicinanza.

46 In forza di tale criterio, la competenza delle autorità giurisdizionali degli Stati membri in materia di responsabilità genitoriale è di norma determinata, conformemente all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, dal luogo di residenza abituale del minore alla data in cui esse sono adite.

47 Tuttavia, l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 consente il trasferimento di un determinato caso a un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’autorità giurisdizionale di norma competente, fermo restando che, come risulta dal considerando 13 del medesimo regolamento, un siffatto trasferimento deve rispondere a condizioni specifiche, da un lato, e può avvenire solo in casi eccezionali, dall’altro.

48 Pertanto, la regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento, cosicché essa dev’essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punto 38, e del 21 ottobre 2015, Gogova, C‑215/15, EU:C:2015:710, punto 41).

49 Ciò posto, l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 dev’essere interpretato nel senso che l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro normalmente competente a conoscere di una controversia deve, per poter chiederne il trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro, riuscire a contrastare la forte presunzione in favore del mantenimento della propria competenza derivante da tale regolamento, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 90 delle sue conclusioni.

50 Più in particolare, occorre ricordare, in primo luogo, che, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, il trasferimento di un caso in materia di responsabilità genitoriale, da parte di un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, può essere effettuato unicamente in favore di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore interessato abbia un «legame particolare».

51 Al fine di dimostrare la sussistenza di un siffatto legame in un determinato caso, occorre fare riferimento agli elementi elencati, in modo tassativo, all’articolo 15, paragrafo 3, lettere da a) ad e), del regolamento n. 2201/2003. Ne consegue che i casi privi di tali elementi devono essere ab origine esclusi dal meccanismo di trasferimento.

52 Ebbene, si deve constatare che tali elementi attestano tutti – se non in modo esplicito, quantomeno dal punto di vista sostanziale – una vicinanza tra il minore interessato dal caso e uno Stato membro diverso da quello cui appartiene l’autorità giurisdizionale competente a conoscere dello stesso sulla base dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento.

53 Infatti, i primi due elementi riguardano la residenza acquisita dal minore nell’altro Stato membro interessato anteriormente o successivamente all’adizione dell’autorità giurisdizionale di norma competente. Il terzo elemento riguarda la cittadinanza di tale minore. Il quarto elemento fa derivare, nei casi pertinenti, il legame di detto minore con l’altro Stato membro in ragione dei beni che questi detiene nel suo territorio. Infine, il quinto elemento verte sul legame di vicinanza che il minore ha con un determinato Stato a motivo dei suoi parenti.

54 Alla luce della natura dei suddetti elementi, si deve osservare che, in sede di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 a un determinato caso, l’autorità giurisdizionale competente deve comparare l’entità e l’intensità del legame di vicinanza «generale» che lo connette al minore interessato, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, di detto regolamento, con quelle del legame di vicinanza «particolare» attestato da uno o più degli elementi enunciati all’articolo 15, paragrafo 3, di tale regolamento e sussistenti, nel caso di specie, tra tale minore e determinati altri Stati membri.

55 Ciò posto, l’esistenza di un «legame particolare» ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, pertinente alla luce delle circostanze del caso, tra il minore e un altro Stato membro non pregiudica necessariamente, di per sé, la questione relativa a se, oltre a ciò, un’autorità giurisdizionale di detto altro Stato membro sia «più adatta a trattare il caso» rispetto al giudice competente, ai sensi di tale disposizione, né tantomeno, in senso affermativo, la questione se il trasferimento del caso a tale autorità giurisdizionale corrisponda all’interesse superiore del minore.

56 Pertanto, spetta in secondo luogo ancora all’autorità giurisdizionale competente stabilire se, all’interno dell’altro Stato membro con cui il minore detiene un legame particolare, esista un’autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso.

57 A tal fine, il giudice competente deve stabilire se il trasferimento del caso a tale altra autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto, per quanto riguarda l’adozione di una decisione riguardante il minore, rispetto all’ipotesi del suo mantenimento davanti ad esso. In tale contesto può tenere conto, fra gli altri elementi, delle norme di procedura dell’altro Stato membro, come quelle applicabili alla raccolta delle prove necessarie al trattamento del caso. Per contro, il giudice competente non dovrebbe prendere in considerazione, ai fini di una tale valutazione, il diritto sostanziale di detto altro Stato membro che sarebbe eventualmente applicabile da parte dell’autorità giurisdizionale di quest’ultimo, nell’ipotesi in cui il caso le fosse trasferito. Infatti, una considerazione siffatta contrasterebbe con i principi della fiducia reciproca tra Stati membri e del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie sui quali si basa il regolamento n. 2201/2003 (v., in tal senso, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punto 45, nonché del 15 luglio 2010, Purrucker, C‑256/09, EU:C:2010:437, punti 70 e 71).

58 In terzo e ultimo luogo, la necessità che il trasferimento corrisponda all’interesse superiore del minore implica che il giudice competente si accerti, alla luce delle circostanze concrete del caso, che il trasferimento da esso previsto in favore di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore interessato.

59 A tal fine, il giudice competente deve valutare l’eventuale incidenza negativa che un simile trasferimento potrebbe avere sui rapporti affettivi, familiari e sociali del minore interessato dal caso o sulla situazione materiale di quest’ultimo.

60 In tale contesto, il giudice competente può altresì decidere, sulla base dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, di chiedere il trasferimento non già dell’intero caso ma soltanto di una parte specifica del medesimo, qualora ciò sia giustificato dalle circostanze che lo caratterizzano. Una simile facoltà può, in particolare, essere contemplata ove il legame di vicinanza con un altro Stato membro non riguardi direttamente il minore in quanto tale, bensì uno dei titolari della responsabilità genitoriale, per il motivo enunciato all’articolo 15, paragrafo 3, lettera d), del regolamento n. 2201/2003.

61 Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, occorre risolvere la terza, la quarta e la sesta questione dichiarando che l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:

– per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro;

– per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.

Sulla seconda e sulla quinta questione

62 Con la seconda e la quinta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, dell’incidenza di un possibile trasferimento di tale caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate o del motivo per il quale la madre del minore interessato si sia avvalsa di questo diritto, prima che detto giudice fosse adito.

63 A tal riguardo, si deve ricordare che, come osservato al punto 42 della presente sentenza, la prescrizione prevista all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 è ispirata, analogamente alle altre regole di competenza previste da tale regolamento in materia di responsabilità genitoriale, all’interesse superiore del minore, e che la questione relativa a se, in un caso determinato, il trasferimento del caso corrisponda a detto interesse superiore implica in particolare, come osservato al punto 58 della presente sentenza, la verifica che un tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore interessato.

64 Ne deriva che il rischio di ripercussioni negative di un possibile trasferimento del caso sul diritto di libera circolazione del minore interessato fa parte degli elementi che devono essere presi in considerazione in sede di attuazione dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.

65 Per contro, le considerazioni relative ad altre persone interessate dal caso non sono destinate, in via di principio, a essere prese in considerazione, salvo che siano anch’esse rilevanti al fine di valutare il suddetto rischio per il minore.

66 Di conseguenza, l’eventuale incidenza di un siffatto trasferimento sul diritto alla libera circolazione delle altre persone interessate, ivi inclusa la madre del minore di cui trattasi, non può essere presa in considerazione dal giudice competente, salvo che sia tale da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore. Lo stesso vale per il motivo per il quale la madre del minore si è avvalsa del suo diritto di libera circolazione prima che fosse adito il giudice competente.

67 Alla seconda e alla quinta questione occorre pertanto rispondere che l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.

Sulle spese

68 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

1) L’articolo 15 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.

2) L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:

– per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro;

– per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.

3) L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.

Firme




Inammissibile il ricorso al giudice per questioni di microconflittualità

 

Il presupposto per l’attivazione dell’intervento del giudice è che il mancato accordo tra i genitori sia insuperabile e che il contrasto costituisca un blocco delle funzioni decisionali inerenti alla vita del soggetto minore determinando un pregiudizio dei suoi interessi (Trib. Milano, sez. IX civ., 5 dicembre 2012).

Quindi, la procedura di cui all’art. 709 ter c.p.c. non è accessibile per dirimere ogni scontro genitoriale ma limitatamente agli “affari essenziali” del minore ossia istruzione, educazione, salute, residenza abituale (Trib. Milano, sez. IX, 7 luglio 2015).

TRIBUNALE MILANO

SEZIONE IX CIVILE 

Ordinanza 23 marzo 2016 (est. G. Buffone)

Osserva

In fatto. Le parti hanno contratto matrimonio in data ….. e sono genitori di …., nata … 2012 e, dunque, in tenerissima età. Pende presso questo ufficio, giudizio di separazione giudiziale. La prima udienza (presidenziale) è stata tenuta in data …febbraio 2015.
Dall’udienza presidenziale, ad oggi, sono già stati emessi sette provvedimenti, sia del Presidente f.f. che del giudice istruttore. Sempre nell’arco di questo limitato periodo, sono intervenuti i Servizi Sociali e una consulenza tecnica d’ufficio, i cui lavori sono in corso. Sono state celebrate sei udienze. In data 11 marzo 2016, sono stati pronunciati i provvedimenti provvisori urgenti ex art. 708 c.p.c. La trama argomentativa dell’ordinanza ex art. 708 c.p.c. ha messo in evidenza una gravissima, patologica e allo stato insanabile conflittualità dei genitori caratterizzata, tra l’altro, dal mancato rispetto dei provvedimenti giurisdizionali, dall’inadempimento delle parti agli obblighi a diverso titolo sanciti ex lege o per provvedimento del giudice (ad es., già quanto al padre, l’obbligo del mantenimento della figlia). Sin dalla data del 10 luglio 2015, la figlia della coppia è stata affidata al Comune di residenza, ex art. 333 c.c., con suo prevalente collocamento presso la madre. L’affidamento all’ente terzo non è venuto meno nel tempo e, anzi, è stato rafforzato con la cennata ordinanza dell’11 marzo 2016 che ha anche dato mandato ai Servizi Sociali di iniziare a valutare un collocamento protettivo della bimba, in famiglia ospitante o comunità. Con i provvedimenti provvisori, ancora per quanto qui interessa, il giudice ha regolato i tempi di frequentazione tra minore e genitori. Al capo IV, lettera d) del dispositivo (di particolare dettaglio, per prevenire litigiosità) il Presidente f.f. ha previsto quanto segue: «Festività pasquali. Con il criterio dell’alternanza, l’intero periodo delle festività pasquali con il padre e con la madre. Per l’anno 2016, il padre terrà la figlia con sé per le festività pasquali, fermo il criterio dell’alternanza per gli anni successivi». In data 22 marzo 2016, la difesa della madre ha presentato “istanza urgente” richiedendo quanto segue: «voglia l’Ill.mo Giudice chiarire e specificare cosa occorra intendere per “festività pasquali”, in particolare se da intendersi dalla domenica di Pasqua alla sera del lunedì dell’Angelo e a che ora il prelievo ed il successivo riaccompagno della bambina e l’esatto luogo di prelievo e di riaccompagno».

In Diritto. Ammissibilità dell’istanza.
L’istanza è palesemente inammissibile e della inammissibilità dovrà tenersi conto anche ai fini del patrocinio a spese dello Stato, di cui sta beneficiando la parte attrice. La ricorrente non qualifica la propria istanza e, dunque, non individua la norma da cui discenderebbe il potere del giudice di intervenire in simile questione. D’altro canto, con uno sforzo interpretativo e di qualificazione, il Tribunale colloca la richiesta nell’ambito dell’art. 709-ter c.p.c. (potere di intervento per risolvere le controversie genitoriali). Così stando le cose, non è predicabile una competenza della giurisdizione adita. Questo Tribunale, con giurisprudenza consolidata, ha ripetutamente affermato quanto segue. La massiccia ingerenza voluta dal legislatore con l’innesto nel codice di rito dell’art. 709-ter c.p.c. presuppone, per potersi considerare legittima e in reale sintonia con gli obiettivi segnati dall’impianto normativo, che il mancato perfezionamento dell’accordo tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale sia accertato come insuperabile e che lo stesso integri, attraverso un significativo blocco delle funzioni decisionali inerenti alla vita del soggetto minore, un consistente pregiudizio dei suoi più pregnanti interessi. Diversamente opinando, in presenza di una forte difformità di vedute e di orientamenti educativi tra i genitori – difformità affatto rara ove si verta in vicende separative o divorzili connotate da accesa conflittualità interpersonale, nelle quali spesso si verifica l’incapacità delle parti di scindere la compromessa relazione di coppia dai profili di gestione del compito genitoriale – si avrebbe quale effetto che l’esercizio della responsabilità genitoriale, e proprio con riguardo alle questioni di maggior rilievo, finirebbe per concentrarsi sulla figura istituzionale del Giudice, con conseguente sostanziale svuotamento dello stesso esercizio da parte dei titolari della potestà medesima e accumulo di responsabilità in capo all’organo giudiziario. Di conseguenza, la pur prevista ingerenza giurisdizionale è da intendersi quale estremo rimedio nell’interesse della prole minore, quanto a dire come intervento del tutto residuale per i casi nei quali qualsiasi tentativo di accordo tra i genitori sia definitivamente accertato come infruttuoso e, inoltre, tale disaccordo sia destinato a ripercuotersi sul minore in termini di serio, oggettivo ed altrimenti inemendabile pregiudizio (Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 5 dicembre 2012, Pres. Servetti, est. Blandini). 

In ogni caso, l’accesso al modulo risolutivo di cui all’art. 709-ter c.p.c. non è consentito al cospetto di qualsivoglia scontro genitoriale ma limitatamente agli “affari essenziali” del minore ossia istruzione, educazione, salute, residenza abituale (Trib. Milano, sez. IX, 7 luglio 2015); quanto a dire, per risolvere problemi di macro-conflittualità non essendo ipotizzabile un intervento del giudice per problemi di micro-conflittualità. In altri termini, non è dato ricorso al giudice per dirimere controversie aventi ad oggetto (guardando ai casi decisi in modo analogo), a titolo di esempio, “il taglio dei capelli del minore”, “la possibilità per un genitore di delegare un parente per prelevare il figlio da scuola”, “l’acquisto di un tipo di vestito piuttosto che un altro” e, così, la specificazione di dati di estremo dettaglio in ordine ai tempi di frequentazione. L’odierna controversia – cosa debba intendersi per “festività pasquali” – rientra nell’ambito di quei litigi, sintomo di patologica conflittualità – per cui non è dato ricorso all’art. 709-ter c.p.c. La richiesta è dunque inammissibile.

In Diritto. Problema sostanziale oggetto della controversia.
L’inammissibilità dell’istanza non pregiudica il minore. Al cospetto di una conflittualità patologica che travolge finanche aspetti per i quali non è dato ricorso al giudice, il tribunale, attestata la inidoneità di padre e madre a svolgere il ruolo genitoriale, deve apporre limiti ex art. 333 c.c. alla loro responsabilità genitoriale, delegando il Comune di residenza per svolgere le funzioni di rappresentanza del fanciullo in loro vece; in caso di micro-conflittualità, ciascuno dei genitori, ben può rivolgersi in tal modo all’ente affidatario che può indirizzare i coniugi verso uno dei servizi loro messi a disposizione (mediazione familiare, sostegno psicologico, supporto terapeutico, etc.).

In Diritto. Problema sostanziale oggetto della controversia.
Inesistenza della materia del contendere. Nel caso concreto, tuttavia, occorre rilevare come la richiesta “urgente” sia, in realtà, fondata sulla omessa corretta valutazione del problema. Come è ben noto, le festività nazionali sono individuate direttamente dalla Legge e, per quanto qui interessa, per festività pasquali (cd. feste mobili) si intende, ex lege, il giorno della domenica (pasquale) e il giorno di lunedì dopo Pasqua, individuate per ciascun calendario annuale. Sfugge alla richiedente, in tal senso, l’art. 2 della legge 27 maggio 1949 n. 260 (disposizioni in materia di ricorrente festive) ove sono espressamente individuate le festività nazionali e, in particolare, i giorni di festa per la Pasqua. Sempre la legislazione prevede che la festività nazionale occupi il completo orario del giorno (da qui il diritto del genitore a cui compete la festività, di prelevare i figli sin dal mattino). Ne consegue che nessun intervento del giudice è ammesso ove è la legge (che, giova ricordare, le parti e soprattutto i difensori hanno l’obbligo di conoscere) a prevedere espressamente una soluzione esplicita al cospetto di dubbi interpretativi. Sotto tale aspetto non può non sottolinearsi la pretestuosità del conflitto tra i genitori. E’ opportuno ricordare che la conflittualità patologica dei genitori, ove consapevolmente coltivata in spregio alle misure giurisdizionali poste in essere dal giudice civile, è idonea a costituire in astratto notizia di reato, relativamente alla fattispecie di cui all’art. 572 c.p., ai danni del minore coinvolto. Su questo va fatta sin da ora ogni riserva riguardo alle comunicazioni all’ufficio di Procura. Si rendono, poi, necessarie delle ulteriori precisazioni, per il fatto che la controversie qui sub iudice sia riuscita a pervenire al Tribunale, non incontrando alcun filtro di contenimento.

In Diritto. Ruolo dell’Avvocato nei processi in cui coinvolti minori.
Al cospetto di una litigiosità esasperata dei genitori, avente ad oggetto finanche una res litigiosa inesistente e frutto, dunque, del solo desiderio di creare nuove occasioni di scontro, ove soprattutto si tratti di micro-conflittualità, gli Avvocati del processo hanno non solo il dovere ma invero l’obbligo di svolgere un ruolo “protettivo” del minore, arginando il conflitto invece che alimentarlo. Ciò alla luce di una interpretazione sistematica ed evolutiva dell’Ordinamento vigente, come risultante per effetto delle normative sopravvenute nel tempo. Giova muovere dalla primaria considerazione che l’Avvocato svolge un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.) ed opera nel contesto di un ordinamento (quello forense) la cui primaria funzione è quella di «garantire la tutela degli interessi individuali e collettivi» sui quali incide la sua attività (art. 1, comma II, lett. a, legge 31 dicembre 2012 n. 247) assicurando, dunque, anche la realizzazione di interessi pubblici primari. Al lume della nuova legge professionale, l’Avvocato è esso stesso parte del servizio pubblico di Giustizia, onerato del dovere di proteggere anche gli interessi pubblici che “incontra” in occasione del processo cui prende parte. Nella doverosa rappresentanza degli interessi egoistici difesi deve, dunque, anche farsi carico di assistere e presidiare gli “interessi altri” coinvolti, nei casi in cui l’Ordinamento gli affidi questo ruolo e questa responsabilità. Lo testimonia espressamente il nuovo codice deontologico forense ove, proprio all’art. 1, è previsto che l’Avvocato «vigila sulla conformità della legge ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea sul rispetto del medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». In alcuni settori in particolare, l’Avvocato diventa, dunque, esso stesso uno strumento di tutela degli interessi prioritari in gioco senza che ciò comporti una rinuncia al suo suolo di “parte del processo”. Con specifico riguardo al procedimento in cui coinvolti minori, è sempre il Codice Deontologico forense a delineare una funzione del difensore di tipo protettivo. Giova ricordare, ad esempio come l’Avvocato non possa ascoltare il minore di età o avere con questi colloqui sulle circostanze oggetto di controversie genitoriali (art. 56). Nel processo in cui è coinvolto il minore, come noto, questi assume la qualifica di parte “sostanziale” del processo (Cass. Civ., Sez. Un., 2238 del 2009; Corte Cost. n. 83 del 2011): ebbene, l’Avvocato non assiste mai uno dei genitori “contro” il minore ma, semmai, in favore e nell’interesse “del minore”. Il minore, dunque, non è un “antagonista” processuale né rispetto all’attore, né rispetto al convenuto. Al contrario, nelle dinamiche avversariali (formate dalle posizioni attorea e di convenuto), i figli sono in posizione “neutrale” e gli Avvocati, assumendo la difesa dei loro genitori, si impegnano a proteggerli e ad operare anche nel loro interesse. Nel processo di famiglia, dunque, l’avvocato è difensore del padre o della madre; ma certamente è anche difensore del minore. Qualunque sia la sua posizione processuale. Il valore “protettivo del minore” che ispira anche l’attività dell’Avvocato è pure desumibile dalle “Linee Guida del Comitato dei Ministeri del Consiglio d’Europa sulla Giustizia a Misura di minore”, proprio di recente richiamate dal progetto normativo di riforma della giustizia minorile, in via di prima approvazione in data 10 marzo 2016. Ebbene, in questo testo europeo, tra l’altro, si richiamano le autorità giudiziarie e tutti i professionisti in contatto con i minori (inclusi gli Avvocati) affinché «in tutti i procedimenti giudiziari i minori siano protetti da eventuali pregiudizi, tra cui intimidazioni, rappresaglie e vittimizzazione secondaria». E’ persino dedicata una serie di puntuali istruzioni per gli Avvocati, già per i percorsi di formazione e assistenza legale al fanciullo. Il Diritto Ue e le convenzioni internazionali convergono nell’affermare che «in tutti gli atti relativi ai minori (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente» (v. ex multis, art. 3 par. 1, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo; art. 24, par. 2. della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Da ultimo – ma non per importanza – certamente merita menzione il d.l. 132 del 2014, convertito in l. 162 del 2014. Come noto, questa normativa di nuovo conio ha conferito agli Avvocati il potere di concludere accordi in materia di famiglia e minori così valorizzando il ruolo dei difensori che, infatti, devono, tra l’altro, occuparsi di garantire il primario interesse dei minori coinvolti. Come è stato autorevolmente evidenziato in Dottrina, si è di fatto inaugurata una sorta di «giurisdizione forense» che muove da una idea dell’Avvocatura “attrezzata” per presidiare anche gli interessi dei fanciulli, in questo tipo di procedimento. Alla luce di tutto quanto sin qui evidenziato, reputa questo Tribunale che quando l’Avvocato stipula il contratto di patrocinio con un genitore, per assisterlo in un procedimento minorile in cui coinvolti i figli, di fatto perviene alla conclusione di un contratto «ad effetti protettivi verso terzi» ove terzi sono i figli, secondo il modello negoziale collaudato in settori affini, come quello sanitario. Ne consegue ancora che l’Avvocato può essere, per l’effetto, destinatario di un rimprovero nelle sedi competenti (in primis quella della responsabilità civile) per condotte attive od omissive che abbiano contribuito a causare un nocumento al minore, per effetto della omessa o mancata protezione dell’interesse superiore del fanciullo. In altri termini, nella doverosa assistenza del padre o della madre, l’Avvocato deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite. In particolare, assumendo una posizione “comune” a difesa del bambino e non assecondando diverbi fondati su situazioni prive di concreta rilevanza. Nel caso di specie, ad esempio, gli Avvocati, investiti dello scontro genitoriale sulle “festività pasquali”, nell’interesse della bambina, ben avrebbero potuto riferire agli assistiti che, per legge, il cennato riferimento include Pasqua e lunedì di pasquetta; ben avrebbero potuto riferire agli stessi che per la questione sollevata poteva offrire supporto risolutivo l’ente affidatario. Nel caso di specie, dunque, la «giurisdizione forense» avrebbe potuto fare da argine e filtro, nell’interesse della bambina.

Conclusioni.
Per tutte le considerazioni sin qui espresse: a) l’istanza è inammissibile; b) lo scontro genitoriale è approdato in Tribunale senza sussistenza di una reale ragione del contendere; c) nel caso di specie, l’interesse primario della minore coinvolta non risulta adeguatamente considerato. Ogni rilievo qui messo in evidenza, viene rimesso alla valutazione del Collegio affinché, a definizione del processo, possa assumere ogni decisione.

P.Q.M.

Dichiara la manifesta inammissibilità dell’istanza.

Rimette al collegio ogni decisione consequenziale

Dispone che l’odierna decisione sia comunicata alle parti e all’ente affidatario

Milano, lì 23 marzo 2016

Il giudice




Il minore va ascoltato…

Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione in un caso di adottabilità, affermando l’imprescindibile obbligo che il giudice ha di sentire i minori in tutti i procedimenti che li concernono, al fine di raccoglierne le opinioni, le esigenze e la volontà, salvo che egli motivi espressamente la non corrispondenza dell’ascolto alle esigenze del minore stesso, che quell’ascolto sconsiglino, essendosi inoltre precisato che, qualora particolari circostanze lo richiedano, l’obbligo può essere assolto anche indirettamente, attraverso una delega specifica a soggetti terzi esperti.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 15 marzo 2015 – 12 maggio 2016, n. 9780
Presidente Ragonesi – Relatore Nazzicone

Svolgimento del processo

La Corte d’appello dell’Aquila, sezione per i minorenni, con sentenza del 12 dicembre 2013 ha respinto gli appelli proposti da (…) e (…) ed (…) avverso la sentenza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila pronunciata il 7 maggio 2013, la quale ha dichiarato lo stato di adottabilità della minore (…)
La corte territoriale ha confermato il giudizio di sussistenza dello stato di abbandono della minore, trovata dai servizi sociali del Comune di (…) in stato di degrado per l’inidoneità della madre, affetta da malattia mentale, a fornirle l’adeguata assistenza, mentre il padre si era allontanato verso altra città con una nuova compagna, lasciando la minore in quelle condizioni, e gli altri parenti, compresa la nonna, non si erano resi conto della situazione, né perfino del fatto che la bambina non frequentasse ancora la prima elementare, pur avendone l’età.
Propongono ricorso per cassazione la madre (…) e la nonna (…) , sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso il curatore speciale della minore.
Con ordinanza interlocutoria del 25 maggio 2015, il collegio ha ordinato la notificazione del ricorso al padre
della minore, assegnando all’uopo il termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza, adempimento tempestivamente espletato.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo, le ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli art. 15, 2 comma e 17, 1 comma, l. n. 184 del 1983, art. 12 Convenzione di New York del 20 novembre 1989, art. 6 Conv. Strasburgo del 25 gennaio 1986, art. 24 Carta europea dei diritti fondamentali, oltre al vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, perché la sentenza impugnata non ha ritenuto illegittimo l’omesso ascolto del minore da parte del tribunale.
Con il secondo motivo, censurano la violazione e falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c., per non avere la corte d’appello ritenuto illegittima la c.t.u., avendo la consulente affidato la somministrazione di tests psicodiagnostici ad altra psicologa.
Con il terzo motivo, lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione degli art. 8 e 15 l. n. 184 del 1983, perché, dopo la fase acuta della malattia mentale della madre, questa era migliorata ed in grado i occuparsi della minore; quanto alla nonna, essa era disponibile a prendersi cura della minore, come invece la corte del merito aveva contraddittoriamente escluso, pur dando atto della sussistenza di rapporti significativi con la minore stessa.
2. – Il primo motivo è infondato.
L’art. 15, secondo comma, ultima parte, l. n. 184 del 1983 prescrive che deve essere sentito “il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento“.
Secondo il principio anche di recente affermato da questa Corte, il giudice ha l’obbligo di sentire i minori in tutti i procedimenti che li concernono, al fine di raccoglierne le opinioni, le esigenze e la volontà, salvo che egli motivi espressamente la non corrispondenza dell’ascolto alle esigenze del minore stesso, che quell’ascolto sconsiglino, essendosi inoltre precisato che, qualora particolari circostanze lo richiedano, l’obbligo può essere assolto anche indirettamente, attraverso una delega specifica a soggetti terzi esperti (Cass. 15 maggio 2013, n. 11687). Invero, l’audizione è adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che riguardino i minori, ai sensi dell’art. 6 convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con la legge 20 marzo 2003, n. 77, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore (Cass., sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238).
La sentenza impugnata ha affermato che la minore fu ascoltata dai consulenti tecnici d’ufficio nominati dal tribunale,onde essa è rispettosa dei principi richiamati ed il motivo si palesa manifestamente da disattendere.
3. – Il secondo motivo è infondato.
La corte d’appello ha chiarito che il giudice di primo grado aveva autorizzato espressamente il consulente tecnico ad avvalersi di esperto psicodiagnostico, onde anche questo motivo non coglie nel segno, dovendosi, altresì, rilevare come esso non contiene censure specifiche ad un pregiudizio subito.
4. – Il terzo motivo è inammissibile.
Esso censura, invero, gli accertamenti in fatto contenuti nella sentenza impugnata, vertendo sulla asserita divergenza tra la decisione e le circostanze fattuali dedotte: il motivo, pertanto, esula dall’ambito di applicazione del rinnovato art. 360, 1 comma, n. 5, c.p.c..
Come è stato chiarito (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), l’art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 5, c.p.c., come riformulato dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366, 1 comma, n. 6, e 369, 2 comma, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
La censura mossa da parte ricorrente è, invece, del tutto indeterminata e astratta. L’impugnazione si risolve pertanto nell’apodittica affermazione per cui non sarebbe affatto emerso che la minore fosse in condizioni di inadeguate cure materiali e morali, e che le odierne ricorrenti non siano in condizioni di occuparsene in modo valido, tuttavia completamente smentita dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata.
È, invero, del tutto estraneo al giudizio di questa Corte il riesame delle prove e delle valutazioni di merito compiute dalla corte d’appello, alla quale (come al giudice di primo grado) compete l’individuazione, nell’ambito del materiale probatorio acquisito, degli elementi rilevanti al fine di accertare o negare lo stato di abbandono nel senso sopra indicato e la necessità di fare luogo, nell’interesse esclusivo del corretto sviluppo psicofisico del minore, alla dichiarazione dello stato di adottabilità.
La motivazione della corte del merito dà conto di plurimi e rilevanti episodi, nonché delle numerose indagini di merito espletate, avendo essa proceduto alla rigorosa valutazione dell’impossibilità di prestare assistenza materiale e morale alla minore al fine di escluderne la transitorietà, ed alla negazione della riconducibilità a fattori causali derivanti da forza maggiore, in modo da acquisire la certezza della continuità, stabilità, definitività delle condizioni obiettive e soggettive accertate, nonché il rischio danni irreversibili nello sviluppo psicofisico della minore stessa.
Su questi accertamenti, nessuna riconsiderazione può essere chiesta a questa Corte di legittimità.
5. – Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in favore dello Stato, essendo il controricorrente ammesso al gratuito patrocinio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio in favore dello Stato, liquidate in 2.900,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie ed accessori di legge.
Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003.




In separazione l’ICI è a metà

Ancora un’interessante sentenza della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 2675 del 10 febbraio 2016 ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale alla moglie a seguito di separazione non libera il marito dal versamento dell’ICI per metà dell’importo.

Svolgimento del processo

1. Nel dicembre del 2006 (…) ( coniuge separata di (…) (…), chiedeva al Giudice di Pace di Roma ed otteneva il 15 gennaio 2007 un decreto ingiuntivo per somme corrispondenti alla quota di pertinenza del marito di quanto corrisposto a titolo di I.C.I. per gli anni 2000, 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005, nonché per il primo semestre dell’anno 2006, in relazione all’appartamento di via (…).

Tale appartamento, già destinato a casa coniugale, le era stato assegnato nel procedimento di separazione personale fra coniugi con ordinanza presidenziale del settembre 1999, poi confermata dal Tribunale di Roma con sentenza del luglio 2004.

Il decreto ingiuntivo veniva opposto dal (…) ed il Giudice di Pace, con sentenza del gennaio 2007 accoglieva l’opposizione.

2. La sentenza veniva appellata dalla (…) dinanzi al Tribunale di Roma, che, con sentenza del 25 febbraio 2012, in riforma della sentenza del primo giudice rigettava l’opposizione al decreto ingiuntivo e compensava per metà le spese giudiziali dei due gradi, ponendo l’altra metà a carico del (…)

3. Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi il (…) .

La (…) ha resistito con controricorso.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 2 c.p.c. in relazione all’art. 9, 2° comma, c.p.c.”, adducendosi che, poiché la domanda creditoria della (…) postulava l’accertamento dell’individuazione del soggetto onerato dell’I.C.I. riguardo alla casa coniugale ed in particolare quello della sussistenza di tale onere per il 50% a carico del (…), il Giudice di Pace avrebbe dovuto rilevare la propria incompetenza per materia ai sensi dell’art. 9, secondo comma, c.p.c. e la competenza per materia del Tribunale vertendosi in materia di controversie su “imposte e tasse”.

1.1. Il motivo è manifestamente inammissibile.

Va innanzitutto rilevato che nella controversia il rapporto di imposta fra ciascuna delle parti come comproprietaria dell’immobile e l’ente impositore, cioè il Comune di Roma, non veniva in rilievo come oggetto della domanda giudiziale, che non riguardava l’accertamento di esso fra contribuente ed ente impositore, bensì solo come uno dei fatti costitutivi della domanda rivolta da un contribuente, la(omissis), verso altro contribuente, il omissis , sulla base di una fattispecie costitutiva originante dalla situazione di comproprietà del bene assoggettato all’imposta e dal fatto del pagamento da parte di un solo contribuente comproprietario, la (…), anche dell’imposta di pertinenza dell’altro. Ciò che veniva in rilievo come fatto costitutivo della più complessa fattispecie era solo la situazione di obbligato al pagamento dell’imposta in capo al (…) la quale, postulando una richiesta di accertamento di una situazione di obbligo di imposta fra il convenuto e l’ente impositore, cioè un terzo, bene poteva aver luogo senza evocare l’ente, potendo svolgersi senza il contraddittorio del terzo un giudizio di accertamento richiesto da un attore dell’esistenza di una situazione giuridica fra il convenuto ed un terzo senza coinvolgere costui, con la conseguenza che per definizione, essendovi estraneo l’ente impositore, la controversia esulava dall’ambito del secondo comma dell’art. 9 c.p.c. (al di à dell’appartenenza delle controversie fra contribuente ed ente in tema di I.C.I. all’ambito della giurisdizione tributaria).

Ne segue che è priva di fondamento la stessa prospettazione di un’inerenza della controversia, per essere in discussione fra le parti, per come prospettata dalla creditrice in ragione del rifiuto di pagare del coniuge, l’esistenza dell’obbligo di imposta del medesimo verso l’ente impositore.

1.2. In disparte tale rilievo, il motivo è inammissibile per l’assorbente ragione che la pur infondata questione di competenza era preclusa, avuto riguardo al regime dell’art. 38 c.p.c., applicabile al giudizio per effetto della mancata proposizione da parte dell’opponente nella prima udienza di effettiva trattazione dinanzi al giudice di pace e del mancato ipotetico esercizio del potere officioso di rilevazione da parte di quel giudice in quell’udienza.

Tanto rende superfluo il rilevare che la prospettazione della (palesemente infondata) questione è avvenuta addirittura solo con il ricorso per cassazione.

2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa e/o insufficiente motivazione in relazione alla domanda di accertamento della insussistenza del credito vantato”.

Il motivo evoca il parametro dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e, dunque, dovrebbe concernere, come è stato per tutte le sue versioni ed anche per quella applicabile al ricorso, che è la versione introdotta dal d.ls. n. 40 del 2006, un vizio motivazionale relativo alla ricostruzione della quaestio facti. Secondo il testo introdotto da quale d.lgs. e precisamene dal suo art. 2, il paradigma di cui al n. 5 prevedeva come motivo di ricorso per cassazione la «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».

2.1. Ora, nella intestazione non si individua il fatto controverso, tale non potendo essere l’accertamento della insussistenza del credito vantato, che evoca un giudizio sull’inesistenza di una non meglio identificata fattispecie costitutiva del credito e, quindi, su una situazione giuridica e non su un fatto storico controverso.

2.2. Nemmeno nell’illustrazione si individua il fatto controverso oggetto di vizio motivazionale relativo alla quaestio facti, ma si svolgono considerazioni giuridiche che vorrebbero palesare che negli anni dal 1999 al 2006 la (…) avrebbe pagato I’I.C.I. anche per la quota di comproprietà del (…) «solo perché tenuta in base ad un consolidato e conforme orientamento giurisprudenziale e normativo» e che su questa questione il Tribunale non avrebbe motivato.

2.3. Ebbene, se il fatto controverso, ancorché non denominato come tale, si identificasse nell’esistenza di tale “consolidato e conforme orientamento giurisprudenziale e normativo”, verrebbe fatto di osservare che l’esistenza del primo può forse anche costituire un dato di fatto, ma non è dato comprendere come possa parlarsi di “orientamento normativo” e nemmeno di fatto normativo. Il fatto normativo, cioè l’esistenza della norma nella sua vigenza, è semmai un dato normativo e dunque regolatore di condotte, onde non è dato comprendere come lo si potrebbe ricondurre al fatto controverso di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

2.4. Peraltro, nell’illustrazione del motivo si argomenta: a) che, conforme a quanto aveva dedotto il ricorrente nell’opposizione al decreto, il Giudice di Pace aveva correttamente ritenuto che, prima di una decisione di questa Corte del 2005, cioè Cass. n. 18476 del 2005, che avrebbe introdotto un diverso orientamento, la pretesa del Comune di pagamento dell’I.C.I. fosse riferibile solo al coniuge assegnatario della casa coniugale, il Giudice di Pace aveva accolto l’opposizione reputando che tale nuovo orientamento non potesse operare che per il futuro, come emergeva da riscontri della “Guida I.C.I. 2006”; b) che l’esattezza dell’assunto del Giudice di Pace veniva ribadita nella comparsa di costituzione in appello e nelle memorie ai sensi dell’art. 190 c.p.c., ma il Tribunale non avrebbe motivato al riguardo, «trascurando l’eccezione [e] liquidandola, a pag. 5 e 6, con [l’affermare che] “la ratio dell’art. 3 sia stata nel senso di esentare ab origine dall’obbligo tributario ICI l’assegnatario della casa coniugale, escludendo il titolare di tale diritto dal novero dei soggetti passivi…” ed ancora [che] “….la sentenza della Cass. del 2005 n. 18476 ….costituisce una conferma all’intepretazione che deve essere attribuita alla norma sin dalla sua entrata in vigore …”

Senonché, la critica di tali affermazioni del Tribunale è svolta, dopo avere registrato che la citata sentenza della Cassazione, peraltro “in una ipotesi diversa da quella che ci occupa”, si limitava ad indicare tra gli oneri posti a carico dell’assegnatario dell’immobile coniugale quelli condominali e poneva a carico del proprietario o di altro titolare di diritto reale assimilabile alla proprietà, l’onere di pagamento dell’I.C.I. diritto e, quindi, sostenendo – se mal non si comprende – che proprio in ragione di tale seconda precisazione la natura dell’assegnazione della casa coniugale individuerebbe il diritto dell’assegnatario come diritto reale, in ragione delle sue caratteristiche.

Si sostiene che in proposito avrebbe il Tribunale omesso motivazione in punto di diritto.

Tuttavia, subito dopo si asserisce, in manifesta contraddizione con la lettura della sentenza prima proposta, che prima di essa vi era un orientamento consolidato e conforme contrario e che la (…) avrebbe pagato per questo la quota del ricorrente.

Si continua evocando, per sostenere una disparità di trattamento fra il coniuge non assegnatario ai fini dell’una e dell’altra imposta, la normativa che sulla questione della posizione del coniuge assegnatario avrebbe assunto il legislatore nella normativa sull’I.M.U. stabilendo che ai soli fini dell’imposta il diritto del medesimo si intende goduto a titolo di diritto di abitazione.

Se ne fa discendere – peraltro apoditticamente – che la scelta normativa in punto di I.M.U. dovrebbe indurre ad interpretare allo stesso modo quella sull’I.C.I.

2.5. La riferita illustrazione si concreta nell’articolazione sia di deduzioni di cui nemmeno è comprensibile, perché non è spiegato, il senso, sia di deduzioni che non tengono conto dell’ampia motivazione della sentenza impugnata.

2.5.1. Sotto il primo aspetto si osserva:

a1) che, una volta considerato il principio di diritto affermato da Cass. n. 18476 del 2005 (secondo cui: «In tema di separazione personale, l’assegnazione della casa coniugale esonera l’assegnatario esclusivamente dal pagamento del canone, cui altrimenti sarebbe tenuto nei confronti del proprietario esclusivo (o, “in parte qua”, del comproprietario) dell’immobile assegnato, onde, qualora il giudice attribuisca ad uno dei coniugi l’abitazione di proprietà dell’altro, la gratuità di tale assegnazione si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima (per la quale, appunto, non deve versarsi corrispettivo), ma non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle, del genere delle spese condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), onde simili spese – in mancanza di un provvedimento espresso che ne accolli l’onere al coniuge proprietario – sono a carico del coniuge assegnatario»), non è dato comprendere come e perché il Giudice di Pace prima ed ora lo stesso ricorrente annettano significato ad esso: nessuna spiegazione ne fornisce l’illustrazione del motivo, che anzi prima parrebbe, senza, però, spiegazione, attribuirgli rilievo a favore della tesi che tutta l’I.C.I. fosse a carico per gli anni di cui trattasi alla (…) e, poi, sostiene che esso abbia segnato il superamento di un non meglio identificato pregresso orientamento;

a2) che appunto tale orientamento nemmeno viene identificato; a3) che del tutto priva di spiegazione, al lume degli ordinari criteri esegetici, è l’affermazione che la scelta legislativa in punto di I.M.U. debba indurre a leggere allo steso modo la situazione riguardo all’I.C.I.

2.5.2. Sotto il secondo aspetto si rileva che è del tutto pretestuosa l’individuazione della motivazione della sentenza impugnata rilevante sul punto nei brevissimi brani indicati, atteso che essa si articola dalle ultime righe della terza pagina sino alla tredicesima riga della pagina 7, con considerazioni con cui il Tribunale esamina funditus la questione, evocando Cass. n. 7680 del 1997, discutendo e spiegando come Cass. n. 18476 del 2005 fosse confermativa dell’orientamento che escludeva che l’assegnazione della casa coniugale desse luogo alla costituzione di un diritto reale a favore del coniuge assegnatario, sì da ricondurre la sua posizione nell’ambito dell’art. 3 del d.lgs. n. 504 del 1992, ed evocando in fine Cass. n. 1654 del 2010.

Tutto tale tessuto motivazionale è semplicemente ignorato.

Il motivo in esame è, pertanto, inammissibile perché non si correla alla motivazione (Cass. n. 359 del 2005) e, gradatamente, per la sua assoluta genericità (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi).

2.6. Mette conto comunque di ricordare che la Sezione Tributaria di questa Corte già con la sentenza n. 6199 del 2007 (cui si conformato Cass. n.. 25486 del 2008 e Cass. – citata dal tribunale – n. 16514 del 2010) aveva statuito il seguente principio di diritto: «In tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’altro coniuge non è soggetto passivo dell’imposta per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dall’art. 3 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale in sede di separazione personale o di divorzio, infatti, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo al coniuge non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta in parola sull’immobile. Né in proposito rileva il disposto dell’art. 218 cod. civ., secondo il quale “Il coniuge che gode dei beni dell’altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario”, in quanto la norma, dettata in tema di regime di separazione dei beni dei coniugi, va intesa solo come previsione integrativa del precedente art. 217 (Amministrazione e godimento dei beni), di guisa che la complessiva regolamentazione recata dalle disposizioni dei due articoli è inapplicabile in tutte le ipotesi in cui il godimento del bene del coniuge da parte dell’altro coniuge sia fondato da un rapporto diverso da quello disciplinato da dette norme, come nell’ipotesi di assegnazione (volontaria o giudiziale) al coniuge affidatario dei figli minori della casa di abitazione di proprietà dell’altro coniuge, atteso che il potere del primo non deriva né da un mandato conferito dal secondo, né dal godimento di fatto del bene (ipotizzante il necessario consenso dell’altro coniuge), di cui si occupa l’art. 218.»

Ora, nel giudizio, di tanto bastava che i giudici di merito prendessero atto, essendo inconcepibile la prospettiva che sulla soluzione della questione – al di fuori di logiche eventualmente inerenti le regole dell’indebito – potessero giuocare eventuali incertezze della giurisprudenza tributaria sull’I.C.I. e, su questioni che evocassero la problematica della natura della situazione dell’affidatario, della giurisprudenza civile.

3. Con il terzo motivo si denuncia in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 2036, 1180 e 1292 c.c.”.

L’illustrazione inizia con l’assumere che nella sua motivazione, a pagina 8, il Tribunale ha ritenuto che nella specie la pretesa della (…) si connotasse come restituzione di un indebito soggettivo e che la medesima – circostanza enunciata prima però della pagina 8 – avrebbe pagato per evitare il rischio di espropriazione della proprietà del qui ricorrente.

Dopo avere riportato la norma dell’art. 2036 c.c. si sostiene che l’essere stato fatto dalla (…) un pagamento indebito dal punto di vista soggettivo individuava come legittimato passivo il Comune accipiente e la legittimazione del ricorrente poteva rilevare solo nelle condizioni di cui all’ultimo comma dell’art. 2036 c.c., cioè soltanto qualora non fosse stata esperibile azione di ripetizione contro il Comune. Tale azione sarebbe stata esperibile con l’azione di rimborso di cui all’art. 13 del d.Igs. n. 504 del 1992 che prevedeva un termine triennale, che – previa abrogazione da parte dell’art. 1, comma 173, della l. n. 296 del 2006 dello stesso art. 13 – era stato portato a cinque anni dall’art. 1, comma 164, di quella legge. Inoltre, sempre in base ad essa era prevista l’applicazione del nuovo termine ai rapporti di imposta pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disposizione. Di tale nuova normativa il Tribunale non avrebbe tenuto conto e sarebbe «lecito pensare che, in ogni caso, il termine nei confronti dell’accipiens non era assolutamente prescritto essendo stato accertato solo a decorrere dal settembre 2005 che l’importo integrale non era dovuto».

Si soggiunge, poi, che il pagamento effettuato dalla (…) non essendo stato effettuato ai sensi dell’art. 1180 c.c., cioè nell’interesse di esso ricorrente, bensì nell’interesse della stessa (…), convinta di essere obbligata al pagamento dell’intero quale assegnataria, secondo l’orientamento che sarebbe stato poi superato, non aveva estinto l’obbligazione del ricorrente verso il Comune, che, dunque, avrebbe potuto richiedere il pagamento allo stesso ricorrente.

3.1. II motivo è inammissibile e non merita soffermarsi sui passaggi espositivi con i quali è sostenuto.

Il Tribunale, infatti, dopo avere enunciato come ratio decidendi quella giustificativa della fondatezza dell’azione della (…) come ripetizione di indebito soggettivo ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2036 c.c., ha enunciato un’ulteriore ratio decidendi, che giuridicamente si profila del tutto autonoma.

3.1.1. Infatti, il Tribunale, dopo avere osservato che «in considerazione dell’errore incolpevole della (…) nel versamento del tributo nella sua interezza, dovuto sia ad una obiettiva difficoltà interpretativa della norma, sia alla circostanza che nel dubbio – laddove non avesse pagato la quota a carico dell’ex coniuge – l’ente comunale avrebbe potuto procedere ad esecuzione sul bene per il recupero coatto della somma, si ritiene come la stessa abbia diritto alla ripetizione di quanto indebitamente versato pro-quota in luogo del (…).» (pag. 7), si è, poi, così espresso (pag. 7-8): «Né rileva la circostanza dedotta da quest’ultimo secondo cui l’appellante avrebbe potuto attivarsi, trattandosi di obbligazione parziaria, presso lo stesso Comune formulando l’istanza di rimborso contemplata dall’art. 13 del D.lgs., in quanto stante la sopra menzionata difficoltà interpretativa della norma si ritiene che la (…) abbia agito in buona fede liquidando il tributo senza richiedere il rimborso, determinando la preclusione decadenziale di tre anni prevista dalla norma; che tuttavia tale preclusione – vertendosi in materia di indebito soggettivo – non inficia in capo alla solvens che abbia pagato per errore scusabile il diritto alla ripetizione dal condebitore verso l’Amministrazione Comunale di quanto alla stessa versato in suo luogo».

3.1.2. Tuttavia, immediatamente di seguito, il Tribunale ha concluso affermando che «del resto laddove così non fosse il (…) beneficerebbe di un ingiusto arricchimento commisurato all’imposta risparmiata, con correlato impoverimento per l’odierna appellante».

Ora, con questa affermazione il Tribunale ha mostrato di abbandonare il piano dell’azione di ripetizione dell’indebito soggettivo ed ha riconosciuto fondata l’azione esercitata dalla (… ) chiaramente riconducendola all’ambito dell’art. 2041 c.c., come rivela il chiaro riferimento all’ingiusto arricchimento del (…): ed all’impoverimento della (…).

Questa ratio decidendi è da sola idonea a giustificare la soluzione della lite in favore della (…) ed essa non è stata impugnata.

Ne deriva il suo consolidamento e, quindi, (secondo ima maggioritaria giurisprudenza: Cass. sez. un. n. 16602 del 2005) la carenza di interesse ad esaminare quella relativa alla fondatezza dell’azione ai sensi dell’art. 2036, terzo comma, c.c. e, secondo altra la necessità di rilevare che si è consolidato un giudicato su di essa, che preclude ogni discussione sull’altra ragione del decidere (Cass. n. 14740 del 2005).

Per mera completezza si rileva che le valutazioni del Tribunale sarebbero anche corrette alla stregua del principio di diritto secondo cui «L’adempimento spontaneo di un’obbligazione da parte del terzo, ai sensi dell’art. 1180 cod. civ., determina l’estinzione dell’obbligazione, anche contro la volontà del creditore, ma non attribuisce automaticamente al terzo un titolo per agire direttamente nei confronti del debitore, non essendo in tal caso configurabili né la surrogazione per volontà del creditore, prevista dall’art. 1201 cod. civ., né quella per volontà del debitore, prevista dall’art. 1202 cod. civ., né quella legale di cui all’art. 1203 n. 3 cod. civ., la quale presuppone che il terzo che adempie sia tenuto con altri o per altri al pagamento del debito; la consapevolezza da parte del terzo di adempiere un debito altrui esclude inoltre la surrogazione legale di cui agli artt. 1203 n. 5 e 2036, terzo comma, cod. civ., la quale, postulando che il pagamento sia riconducibile all’indebito soggettivo “ex latere solventis”, ma non sussistano le condizioni per la ripetizione, presuppone nel terzo la coscienza e la volontà di adempiere un debito proprio; pertanto, il terzo che abbia pagato sapendo di non essere debitore può agire unicamente per ottenere l’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, stante l’indubbio vantaggio economico ricevuto dal debitore.» (Cass. sez. un. n. 9946 del 2009).

Principio di diritto questo che avrebbe potuto giustificare, se il Tribunale non avesse enunciato la individuata seconda ratio decidendi non impugnata, il rigetto del motivo dovendosi procedere ad una mera correzione della motivazione della sentenza in conformità ad esso. Correzione possibile perché implicante solo l’applicazione dell’esatto diritto senza necessità di accertamenti di fatto e, dunque, senza vulnerazione del principio della domanda (Cass. n. 27406 del 2008; n. 14646 del 2009).

Il motivo è, dichiarato, conclusivamente, inammissibile.

4. Con il quarto motivo si prospetta in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. “omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla solidarietà passiva della imposta – Errore di diritto ex art. 360 n. 2 c.p.c.”.

Il motivo si articola argomentando che l’obbligazione di pagamento dell’I.C.I. a carico di comproprietari non è solidale ed addebita al Tribunale, senza individuare dove lo avrebbe detto e comunque senza che nella sentenza si colga una simile affermazione – di aver deciso ritenendo il contrario.

4.1. Il motivo – a parte l’incomprensibile evocazione del n. 2 dell’art. 360 c.p.c. – in tal modo non si correla ad una motivazione della sentenza impugnata e tanto l’avrebbe reso inammissibile.

4.2. La sorte del precedente motivo e la rilevazione del consolidamento della ratio decidendi di cui si è detto lo rende invece inammissibile ancora a monte, dato che si muove nella logica della ripetizione di indebito.

5. Con un quinto motivo si denuncia “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 2948 c.c. – Prescrizione del diritto”.

Vi si postula, nel presupposto che la domanda sia stata decisa come relativa a ripetizione indebito che il Tribunale avrebbe omesso di motivare perché non fosse applicabile l’art. 2948 c.c. anziché l’art. 2946 c.c., tenuto conto che la ripetizione di indebito è stata ammessa per aver lasciato la (…) trascorrere il termine triennale di rimborso.

5.1. Il motivo, nuovamente evocante un paradigma errato dell’art. 360 c.p.c. (sebbene si tratti di circostanza di per sé innocua: Cass. sez un. n. 17931 del 2013), sarebbe del tutto generico, se lo si dovesse esaminare, atteso che non solo non si indica a quale delle ipotesi del paradigma dell’art. 2948 c.c. sarebbe da ricondurre la fattispecie e non si spiegano in modo chiaro le ragioni di una simile indeterminata riconduzione.

5.2. Senonché è espressamente prospettato nella logica della ratio decidendi sull’indebito. Ne deriva anche in tal caso la sua inammissibilità, per essersi consolidata la già individuata “altra” ratio sull’arricchimento.

6. Il ricorso, stante l’inammissibilità di tutti i motivi, dev’essere dichiarato inammissibile.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis del citato art. 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del di giudizio di cassazione, liquidate in euro tremila, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis del citato art. 13.




Conflitto permanente? Sì all’abbandono del tetto domestico

Scrive la Corte di Cassazione in un’ordinanza resa lo scorso 12 aprile: “… una situazione di conflitto permanente ben può essere indicativa della definitiva rottura della comunione spirituale fra i coniugi: è pertanto sicuramente errato, e non rispondente ai principi giurisprudenziali ripetutamente enunciati in materia (cfr., fra molte, le più recenti Cass. nn. 87131015, 107191013, 45401011), ritenere ingiustificato il comportamento di una moglie che, essendo in attesa di un figlio (e vivendo pertanto una situazione particolarmente delicata sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico) abbia scelto di non far ritorno a casa dopo l’ennesimo litigio col marito, solo perché non v’è prova che questi le abbia usato violenza fisica.” Stando a quanto motiva la Corte di Cassazione, in ipotesi come nel caso in questione, di un conflitto permanente, sarebbe possibile e lecito, lasciare l’abitazione familiare prima della separazione.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile

ordinanza del 12 febbraio – 12 aprile 2016, n. 7163

Presidente Dogliotti – Relatore Cristiano

Fatto e diritto

E’ stata depositata la seguente relazione:
1) La Corte d’appello di Catanzaro ha respinto l’appello proposto da (…) contro il capo della sentenza di primo grado che, pronunciata la sua separazione giudiziale dal marito (…), aveva accolto la domanda di addebito avanzata da quest’ultimo.
La corte territoriale, esclusa la rilevanza probatoria dei fatti riferiti dall’appellante che si erano verificati in data successiva alla separazione, ha ritenuto che l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza fosse stata determinata dal comportamento della signora, che si era volontariamente allontanata dal domicilio coniugale senza alcuna ragione giustificatrice. In particolare, il giudice d’appello ha rilevato: che i testi escussi avevano riferito che le liti fra i coniugi erano state determinate dall’atteggiamento provocatorio della (…); che le denunce-querele da questa sporte contro il marito erano prive di riscontri documentali; che il certificato rilasciatole dal pronto-soccorso la sera dei suo allontanamento dalla casa familiare appariva generico e non probante.

2) La sentenza è stata impugnata da (…) con ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui (…) ha resistito con controricorso. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 143, 151, 2697 c.c., nonché vizio di motivazione della sentenza impugnata, lamentando che la corte d’appello non abbia tenuto conto dei fatti decisivi che avrebbero dovuto condurre ad escludere la sua volontà di allontanarsi immotivatamente e definitivamente dalla casa coniugale.
Il motivo appare manifestamente fondato.
La corte del merito ha infatti ritenuto che la separazione fosse addebitabile alla (…) senza considerare: a) che, al di là dell’atteggiamento asseritamente provocatorio della signora (peraltro riferito da familiari del (…), la cui attendibilità in ordine alle ragioni di contrasto fra marito e moglie avrebbe dovuto essere vagliata con particolare rigore) è pacifico che i litigi fra i coniugi fossero frequenti ben prima che la stessa assumesse l’iniziativa di allontanarsi dal domicilio coniugale; b) che è altrettanto pacifico che, appena prima di decidersi all’allontanamento, la (…), che era all’epoca incinta, si fosse recata in ospedale impaurita dalle possibili conseguenze, per la propria salute e per quella del feto, di un “litigio domestico” di cui aveva riferito ai sanitari; c) che inoltre, e soprattutto, secondo quanto accertato dal giudice di primo grado, dopo pochi giorni la ricorrente aveva tentato di far rientro a casa, ma il rientro le era stato impedito dall’avvenuta sostituzione della serratura dei portone d’ingresso dell’abitazione.
Le circostanze sub a) e b) denotano, indubitabilmente, una situazione di conflitto permanente che ben può essere indicativa della definitiva rottura della comunione spirituale fra i coniugi: è pertanto sicuramente errato, e non rispondente ai principi giurisprudenziali ripetutamente enunciati in materia da questa Corte (cfr., fra molte, le più recenti Cass. nn. 87131015, 107191013, 45401011), ritenere ingiustificato il comportamento di una moglie che, essendo in attesa di un figlio (e vivendo pertanto una situazione particolarmente delicata sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico) abbia scelto di non far ritorno a casa dopo l’ennesimo litigio col marito, solo perché non v’è prova che questi le abbia usato violenza fisica. La circostanza sub c) (totalmente ignorata dalla corte territoriale e inopinatamente ritenuta dal primo giudice “una lecita risposta” del (…) al comportamento della moglie, quasi che sussista una sorta di diritto del coniuge, ancorché incolpevole, alla ritorsione) esclude, invece, la volontà della (…) di definitivo abbandono del tetto coniugale ed appare, piuttosto, rilevante quale segnale di una contestuale, maturata decisione del (…)  di porre fine alla convivenza.

3) Risulterebbe assorbito il secondo motivo di censura, con il quale la ricorrente lamenta che la corte d’appello, travalicando i limiti della propria cognizione, abbia posto a sostegno della pronuncia di addebito circostanze non dedotte dal (…): il capo della sentenza impugnato si fonda infatti unicamente sull’accertamento dell’avvenuto abbandono del tetto coniugale da parte della (…), mentre l’affermazione del carattere litigioso e provocatorio della signora, compiuta dal giudice a quo al fine di escludere che detto allontanamento potesse essere giustificato dal comportamento del marito, dovrà formare oggetto di una nuova valutazione solo nel caso in cui, tenuto conto dei principi giurisprudenziali sopra richiamati e della circostanza di fatto ignorata in sentenza, essa appaia ancora rilevante ai fini della decisione.
Ad avviso di questa relatrice si dovrebbe pertanto concludere per l’accoglimento del primo motivo, assorbito il secondo, e per il rinvio della causa, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, con decisione che potrebbe essere assunta in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Il collegio ha esaminato gli atti, ha lettola relazione e ne condivide le conclusioni, non utilmente contrastate dal (…) nella memoria depositata, che nulla aggiunge a quanto da questi già dedotto nel controricorso, che sembra dimenticare che la sentenza impugnata si fonda sul rilievo dell’intervenuto abbandono da parte della (…) del tetto coniugale, e non sull’accertamento del carattere “irascibile” della ricorrente, e che, comunque, ripercorre interamente il merito del giudizio, il cui riesame spetta al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro , in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in esso menzionati.